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un interessante testo sulle sculture sonore. per approfondire
©Jacques Rémus, "Musiques, arts, technologie. Pour une approche critique" , Colloque International Montpellier Barcelone, 12-15 décembre 2000


ARTS DE L'ESPACE


La nécessaire existence de l'objet implique des choix esthétiques de forme, de structure, de volumes et de couleurs. Certains iront vers l'objet brut ou sa destruction (Nam June Paik), récupéré, détourné, (Frédéric Lejunter, Jérome Jeanmart, Bertrand Boulanger) d'autres vers les esthétiques liées à l'esprit des technologies de pointe qu'ils utilisent (Chistof Schlàger, Philippe Monvaillier), d'autre laisseront les fonctions créer les formes (Trimpin), parfois avec beaucoup de poésie (Harry Partch) ou un choix certain des matériaux (fontaines des frères Baschet).
Mais la sculpture sonore se caractérise par la présence de mécanismes vibratoires et de

mécanismes de transformation de mouvements et d'énergie. Ces mécanismes impliquent aussi des sortes d'écriture cinétiques parfois minimales (Pierre Berthé, Antonio de Luca) mais caractéristiques de chaque auteur (Jean Tinguely ou Takis, Alain Terlutte ou Jean Weinfeld, les "Namureauphones").
Des installations d'orgues éclatés sont destinées à être scénographiées (Horst Rickels) ou sont l'essentiel de la scénographie d'un spectacle (Harry de Witt)
La volonté de jouer avec des matériaux en mouvement pose les base d'un art cinétique sonore, que ce soit avec les tiges oscillantes d'un Harry Bertoia, les violons d'une Rebecca Horn ou les mécanos d'un Pierre Bastien.



Anteprima 


GIUSEPPE ANZANI



Frantoio alchemico


Nell’estate del 2001, quando ho avuto modo di assistere alle performance basate sulle sculture sonore di Antonio De Luca, venivo da una recente esperienza di «acoustic design», ed avevo pubblicato da qualche anno un lavoro sull’archetipo dell’acqua in architettura; ero quindi animato da un fervido (e critico) interesse per un lavoro che, come mi era stato detto da amici, si poneva sul margine tra arti visive e mondo sonoro coinvolgendo materiali come il bronzo (che risuonava anche nelle campane del «mio» paesaggio sonoro) e l’acqua. Ho scoperto in fretta la grande suggestione del lavoro di Antonio, e - dopo una breve conversazione con lui - come questa sia frutto di un processo creativo autentico e pieno di significato.
I materiali di cui sono fatte le due installazioni sono quelli provenienti da un frantoio salentino, (l’autore vive nei pressi di Lecce) soavemente decostruito dall’ostinato lavorio dell’abbandono: grandi dischi metallici provenienti dalle vecchie presse, tubi sottili, imbuti, di varie dimensioni. I dischi sono sospesi al soffitto tramite un cavo metallico, in maniera che possano ruotare a lungo intorno al loro centro grazie a misurate spinte tangenziali inferte dal performer.
Nella prima (Fluxofono- 1998) ogni disco, ruotando, vien fatto vibrare da un tubo che sfrega sul bordo, mentre è legato per l’altro capo al cavo che mantiene il marchingegno. Alla luce di piccole lampade a olio, disposte tra i piedi degli astanti seguendo una semplice ma misteriosa geometria, quattro-cinque dischi – azionati l’uno dopo l’altro da brevi spinte – cantano la loro polifonia, e inondano lo spazio semibuio di armoniche gravi e rotolanti, come se le mole di pietra del vecchio frantoio rinascessero in forma di immani macine metalliche. Con gli imbuti di latta sospesi sui dischi in moto, Antonio seleziona alcune di quelle armoniche, ed allora una voce solista sembra staccarsi di un poco dal coro, e il tappeto sonoro per qualche secondo si increspa di onde nuove. L’uniformità sonora è solo un’impressione iniziale: ben presto si apprezzano le differenze di altezza e di timbro di ciascun disco, se ne intuisce il periodo grazie a qualche asperità del bordo, e poi la suggestione fa il resto.
Siderale (1998) è basato sulla stessa installazione, ma al posto dei tubi metallici è l’acqua a stimolare i dischi nella loro rotazione, cadendo goccia a goccia su di essi attraverso somministratori da fleboclisi. In un silenzio quasi assoluto, e nella semioscurità, gli stillicidi battono tempi discordi che talvolta paiono sincronizzarsi, e aggiungono una complessa trama ritmica ai timbri metallici già ascoltati in Fluxofono (l’alta variabilità delle combinazioni di ritmo fa di questa installazione un vero e proprio strumento per la sperimentazione di musica concreta). Il tempo trascorso intanto si materializza e quantifica in larghe velature d’acqua che si inanellano sui dischi rotanti per centrifugarsi morbidamente al suolo.
Il senso di questi lavori mi sembra risiedere nella concezione del processo creativo come trasmutazione, riciclaggio, e arte combinatoria (caratteristiche ricorrenti nelle opere di De Luca). Il frantoio stesso è il primo e spesso l’unico luogo dei nostri villaggi in cui avviene la trasformazione di una materia prima in prodotto, l’archetipo dell’industria alimentare in cui un frutto dell’agricoltura si rende utilizzabile sotto forma d’olio. De Luca entra nel frantoio destrutturato, decomposto, e ricompone un’altra macchina, anzi più d’una, fatta per comunicare emozioni nuove che comprendono, però, nella voce dei materiali, le suggestioni arcaiche della sua terra. Poi l’uso del suono, quello dell’acqua e del buio, sembrano sottolineare il bisogno di rifondare l’esperienza artistica su stimoli primari attraverso il coinvolgimento sensoriale (Alfred Tomatis ha d’altronde dimostrato come tra le registrazioni primarie del feto ci sia quella dell’udito «liquido», in cui i suoni sono trasmessi al timpano attraverso il liquido amniotico, nell’oscurità dell’utero; solo dopo la nascita l’udito diventerà «aereo», e questo richiederà un periodo di adattamento dell’orecchio esterno). Questo vissuto primordiale e i frammenti arcaici dell’ambiente salentino, rielaborati nel mortaio alchemico di Antonio De Luca, diventano oggetti che ampliano il campo dell’esperienza chiamando il corpo a partecipare a una cerimonia nuovissima che rimanda al mistero di altre molto antiche, archetipiche, in cui ogni cultura può riconoscersi.




Il paesaggio interiore dell'ascolto

Carlo Infante


“La musica è i suoni : i suoni che ci circondano, ci si trovi o meno in una sala da concerto...” è da questo suggerimento di John Cage che è possibile partire per una riflessione sull’esperienza di confine messa in gioco da Antonio De Luca.
Cage arrivò al paradosso di creare un atto esemplare dal titolo 4’33” Silence che invitava ad ascoltare nel silenzio i suoni dell’ambiente. Quella composizione affermava semplicemente un intervallo, rivelando un’occasione extra-ordinaria per fare dell’ascolto dei rumori del mondo un evento. Una provocazione (era il 1952) almeno quanto quelle prodotte da Marcel Duchamp che con la teoria del “ready made” mise in crisi lo statuto dell’opera d’arte esponendo gli oggetti trovati nella vita quotidiana. Nella cultura occidentale quei fatti sono stati decisivi per rimettere in discussione alcuni automatismi, riconoscendo che la percezione, l’ascolto e la visione, non possono essere incanalati esclusivamente dalle sovrastrutture culturali predeterminate.
Per fare dello spiazzamento un valore di nuova sensibilità.
Per fare dell’ascolto “un piccolo teatro” come disse Roland Barthes.
Ed è proprio sulla base dell’ascolto, la nostra percezione più diretta, quella filogeneticamente primaria (il feto “sa” già ascoltare attraverso le vibrazioni nel liquido amniotico, come indica Murray Schafer nel decisivo Il paesaggio sonoro) che si può elaborare un pensiero nuovo sul rapporto tra la nostra sensibilità e la realtà esterna in mutazione. Una realtà in cui Antonio De Luca trova (come Duchamp) i materiali, pietre e metalli, per le sue ambientazioni che suonano anche, solo se colui che le visita accende la giusta frequenza per coglierne la risonanza, scoprendo che esiste una paesaggio interiore dell’ascolto.






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